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  • Immagine del redattorePaolo Mirri

Resilienza in psicologia: cos'è? Definizione e critica personale.

Aggiornamento: 14 feb 2022

Parliamo di termini.


Resilienza è forse uno dei termini “psicologhesi” più utilizzati e forse abusati di questo periodo.

Comprendo perfettamente che nella cultura di massa certe parole della psicologia possano girare, modificarsi, possano diventare uno slang. Però a volte è necessario riflettere sul significato originario e porsi delle domande proprio per evitare che la parola si svuoti di senso.


In questo articolo tratterò velocemente di cosa sia la resilienza in psicologia e proporrò una piccola critica personale a questo concetto.


Partiamo dalle basi: cos’è la resilienza in psicologia.


Resilienza deriva dalla parola a matrice latina “resilire”, da “re-salire”, saltare indietro, rimbalzare.

Cito direttamente dall’enciclopedia Treccani le prime due definizioni. La terza, quella “psicologhese”, la vediamo dopo.


“1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità.


2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.”


Guarda bene questi due punti: uno indica la capacità di un materiale di assorbire un urto, di resistere ad una perturbazione da corpo contundente. La seconda indica la capacità di ritornare come prima dopo essersi piegati.


Il concetto di resilienza in psicologia, di base, non è troppo dissimile da queste prime due definizioni. Prendile ed applicale alla mente umana ed abbiamo la resilienza psicologica.


Resilienza è la capacità dell’individuo di rispondere positivamente ad un evento negativo / trauma, riuscendo a riorganizzarsi.


Questo vuol dire che una persona che vive un trauma prova delle emozioni molto forti e negative, vive uno scossone interiore di forte entità, ma se è resiliente riesce a mobilitare quelle risorse interne per ritornare ad una situazione di stabilità o benessere.


C’è un “profilo psicologico” resiliente?



Secondo Werner e Smith (1982) ci sono alcuni fattori che influenzano negativamente la capacità di resilienza dell’individuo. Questi sono: l’instabilità emotiva, la bassa autostima, aver vissuto grandi traumi come abusi, l’isolamento sociale, conflitti familiari, problemi economici, deficit intellettivi.


Sempre secondo gli autori gli aspetti presenti nelle persone resilienti sono: capacità seduttiva (ovvero la capacità di riconoscere il supporto sociale esterno e saperlo portare a sé), la consapevolezza, l’autocontrollo, la primogenitura, il buon temperamento, un buon clima familiare, la buona competenza comunicativa.


Gli autori citano anche il locus of control interno che tratterò adesso nella mia piccola parte di critica.



Critica alla resilienza.


Ho sempre trovato il concetto di resilienza piuttosto scarno. Se osserviamo la vita delle persone, non solo quella psichica, ma soprattutto quella relazionale, quella delle azioni della vita quotidiana, non possiamo fare a meno di restare meravigliati della sua complessità.


Nella narrazione delle persone siamo impressionati dai dettagli e dalle sfumature che compongono come un mosaico di una vetrata la loro vita quotidiana.


Forse noi esseri umani siamo un po’ questo, delle specie di vetrate colorate da tanti piccoli dettagli, e quando raccontiamo la nostra vita rifrangiamo la luce in vari modi, tutto per impressionare l’altro, creiamo dei giochi di luce ad effetto che allontanano o avvicinano e sono lo specchio di alcune parti di noi.


La differenza tra noi e la vetrata di una cattedrale è che quest’ultima è di vetro colorato, resta statico e risulta frangibile ad una sassata, ed una volta che il suo mosaico è rotto ci vuole qualcuno che lo aggiusti.


Gli umani hanno mosaici con motivi unici al mondo e colori mutevoli.


I nostri colori cambiano alle varie sassate, e dosiamo volontariamente l’inclinazione dei nostri vetrini colorati per impressionare gli occhi degli altri. Una sassata fa assumere al mosaico umano un colore sanguigno, può sconvolgere il colore globale della composizione, ma possiamo usare gli altri vetrini per dissimulare o per accentuare il colore sanguigno, per confondere o ammaliare con giochi di luce.


Il mosaico umano non si rompe dopo la sassata, il colore sanguigno assume col tempo altre tonalità, questo perché è suscettibile alla luce delle altre vetrate che ha impressionato con la propria.


Con questo discorso voglio passare il concetto che, a mio avviso, è piuttosto fuorviante intendere la mente come un qualcosa che si possa rompere come un materiale. La mente è impalpabile per definizione, non si rompe né si scheggia. Reagisce, sempre.


Il punto non sta quindi nella rottura o meno di un qualcosa di intrinsecamente infrangibile, ma nella sua capacità di elaborare il danno.


Appunto per questo trovo molto più congeniale ad una concezione di “mente” non tanto una dimensione di resilienza, ma di “locus of control interno” (Rotter,1954).


Quest’ultimo è la capacità dell’essere umano di riconoscersi come parte attiva nella vita. E’ l’attribuzione della responsabilità degli eventi psichici e delle proprie azioni a Sé stesso e non ad altro rispetto a Sé.


Chiaramente attribuirsi responsabilità implica intensità emotiva maggiore, ma al contempo la possibilità di vedersi come protagonista attivo nell’indirizzare le proprie azioni. Quindi caricarle di significato, uno dei primi passi per affrontare le avversità ed elaborare il cambiamento interno.


Se parlo di resilienza, mi riferisco ad un insieme di fattori sopracitati, sui quali un esterno può agire per migliorarli. Se mi riferisco ad un locus of control interno, parto dalla concezione che il primo passo per attribuirsi un ruolo da protagonista debba farlo l’individuo, quindi si ribalta la visione dell’uomo ed il suo rapporto con il mondo esterno.


In conclusione, quindi, per la mia visione delle cose, il concetto di resilienza, è riduttivo in quanto concepisce un insieme di fattori statico che spiega poco la realtà personale.


Per una visione più umanistica della psicologia invece per me è necessario spostare l’attenzione sulle modalità di elaborazione dell’esperienza nel tempo, concetto più fluido ma dinamico.

E la realtà non è mai statica, è un continuo divenire.



 

BIBLIOGRAFIA


Werner, E., & Smith, R. S. (1992). Overcoming the odds: High risk children for birth to adulthood. Ithaca (NY): Cornell University Press.


Rotter J.B., (1954) Social learning and clinical psychology. New York, Prentice-Hall.


 

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